[il Mulino, Bologna 2009]
Tra gli scrittori che hanno contribuito, sulla soglia del Novecento, a istituire la letteratura come spazio sociale autonomo e dotato di leggi proprie un posto di tutto rilievo andrebbe finalmente riconosciuto a Karl Kraus. Con la sua rivista, la «Fackel» (1899- 1936), è stato infatti tra i fondatori e “nomateti” del campo letterario (Bourdieu) in area tedesca. In Italia Kraus è tuttora poco conosciuto. In parte per difficoltà oggettive: inestricabilmente legata al contesto d’origine, la sua scrittura è di ardua traducibilità, e meglio che volgerla in altra lingua sarebbe rifarla da capo, assumendone le strategie per intervenire su un contesto nuovo; in questo senso la più fedele “traduzione” italiana di Kraus sono probabilmente le satire e polemiche di Cesare Cases.
Per altri versi la sua scarsa notorietà è legata al curioso destino editoriale che lo ha visto approdare da noi in Italia solo negli anni Settanta e sotto le politicamente ambigue insegne di Adelphi. Ambiguo, o almeno contraddittorio, Kraus lo è stato di fatto, avendo sostenuto i partiti più diversi, a volte impresentabili, dai cattolici ai socialdemocratici, dall’attardata aristocrazia imperialregia al reazionario Dollfuss. Nel tentativo di dar conto di queste contraddizioni – questo l’intento primario del suo libro – Maurizio Cau ci dà una lettura complessiva di Kraus che, muovendosi con inconsueta sicurezza tra studi politico- giuridici e studi letterari, mette a fuoco anche alcuni nodi centrali del rapporto tra letteratura e società.
Kraus appartiene a quel manipolo di scrittori che, sulla scia di Flaubert, si convincono di poter contrastare il consolidamento della società borghese non con l’azione politica ma perseguendo la verità attraverso la sorveglianza sulla lingua. Per lui tuttavia non è sufficiente realizzare l’“opera”, sia essa Madame Bovary o L’educazione sentimentale, ma è indispensabile denunciare il tradimento del linguaggio dove esso avviene, nel suo uso pubblico: il suo progetto artistico prosegue e potenzia, piuttosto, il grande torso di Bouvard e Pecuchet e dello Stupidario. Kraus individua il pericolo più grande per la società umana (sic!) nel giornalismo, la «magia nera» che non solo si sostituisce alla realtà, con la pretesa di descriverla, ma arriva a condizionarne la struttura stessa, imponendo le categorie del sensazionale, dello scandaloso, del politicamente corretto, ecc. e l’assuefazione alla sistematica deformazione della verità in funzione degli interessi economici dei proprietari e degli inserzionisti.
Il suo realismo non risiede nell’opera ma consiste nel mettere all’opera le armi dell’estetica, nel mondo sociale. Per ristabilire la verità contro il “giornalume” (journaille) ricorre ad ogni mezzo, vale a dire ad ogni genere letterario – il saggio, la poesia, l’aforisma, la satira, il montaggio di citazioni (una sorta di blob giornalistico) – ma anche a svariate pratiche non strettamente letterarie: dalla lettura pubblica al celeberrimo manifesto con cui fece tappezzare Vienna costringendo alle dimissioni il capo della polizia Johann Schober, dal Theater der Dichtung al processo penale, vera e propria “prosecuzione della satira con altri mezzi”. Questo ampio ventaglio di possibilità della parola letteraria, che nel corso del Novecento sono state spesso accantonate e dimenticate, può essere oggi di grande utilità per comprendere (e dunque modificare) la funzione dello scrittore nella società contemporanea
Lascia un commento